L’ultima notte a Guayaquil non dormo bene, sono agitato ed eccitato dall’idea di andare finalmente alle isole Galapagos, è un idea che mi perseguitava dal 2005 ma che non pensavo si realizzasse. Andare alle Galapagos è caro, ma ho dei soldi messi da parte per far qualcosa con Gianina, è visto che la nostra relazione è terminata… bhe, li posso spendere come meglio credo. La mattina la città sembra deserta, ieri era festa, venerdì santo, ma qualche tassista lavora anche oggi e in pochi minuti arrivo all’aeroporto. Pago 10 dollari d’immigrazione, le isole sono territorio ecuadoriano ma c’è un controllo per chi entra e chi esce, non si può star lì per più di un certo tempo. Dopo controllano i bagagli, non si può portare frutta né altre cose organiche. Finalmente arriva il check-in e quindi posso entrare nella sala delle partenze, i soliti controlli, poi approfitto del wi-fi per connettermi ad internet gratis e faccio due chiacchiere virtuali con Rudy, il tempo passa in fretta ed è già ora di salire sull’aereo. Sono uno degli ultimi e mi dicono che posso sedermi dove voglio, mi siedo vicino all’entrata. Poco prima di arrivare disinfestano l’aereo con uno spray, dicono che è permesso dall’organizzazione mondiale della sanità e quindi non dovrebbe farci male… chissà. Le isole “incantate” distano circa mille chilometri a ovest del continente sud americano, in pieno oceano pacifico e il loro isolamento biologico ha dato vita a flora e fauna uniche al mondo. Dopo un’ora e mezzo finalmente l’aereo atterra sull’isola Baltra, controllano il passaporto, pago i 100 dollari d’entrata al parco e vado per i bagagli, poco fuori c’è un omino con un cartello con due nomi scritti su. Uno dei due è il mio. L’altro nome è di una ragazza di Guayaquil, Mabel, che fino al 25 ha il mio stesso “pacchetto”. L’aeroporto di Baltra è il più importante delle isole Galapagos, fu costruito dalla marina degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale per pattugliare il canale di Panama. Ritirati i bagagli saliamo su un autobus della compagnia aerea che ci porta al molo del canale di Itabaca, dove ci imbarchiamo per l’isola Santa Cruz. Dall’autobus, giù nel mare, vedo già la prima tartaruga marina che emerge e poi sparisce, e una volta arrivati al molo c’è il primo “lobo marino” (un’otaria) e su degli scogli poco lontano delle sule dai piedi blu. Centocinquanta metri di mare calmo e cristallino separano la piccola isola di Baltra da Santa Cruz. Una volta a terra saliamo sul pick-up dell’omino che è venuto a prenderci per andare a Puerto Ayora. Quarantadue chilometri di strada, passando per la parte alta dell’isola, ricca di vegetazione. Puerto Ayora è il maggior assembramento umano dell’arcipelago, dove c’è l’hotel che mi ospiterà per quattro notti, l’ultima notte la passero nell’isola di San Cristòbal. Arrivati alla cittadina, l’anfitriona, amministratrice e proprietaria dell’”hotel España” Esther, spiega il programma del pacchetto a me ed a Mabel, che diventerà per i prossimi tre giorni la mia compagna d’avventure e vicina di stanza. Pranziamo poi andiamo a vedere il lungomare, alle tre in hotel ci viene a prendere un taxi che ci porta alla stazione scientifica Charles Darwin, seguiti in bicicletta da un vecchio che sarà la nostra guida. Oltre a delle nozioni e notizie sulle isole, il centro alleva tartarughe Galapagos per poi re introdurle nel loro habitat naturale. Rientriamo in hotel a piedi, che non è lontanissimo, fermandoci a vedere il piccolo mercato artigianale di souvenires e qualche negozio. È ora di cena, poi un altro giro per il lungomare a contemplare il mare e ammirare qualche animale. Verso le dieci andiamo, con altri ospiti dell'hotel ed Esther in un bar-discoteca, Bongo, le donne giocano a bigliardo, io bevo qualche birretta e mi guardo intorno.
Questo è un diario di viaggio, senza presunzioni.
Cronache, racconti, appunti, memorie delle mie avventure, a volte con frasi prese in prestito da libri, riviste, giornali o copia-incolla da siti internet.
Continuavo a considerare me stesso normale e folle il resto del mondo, tuttavia con mia grande costernazione a poco a poco mi resi conto che i miei amici pensavano esattamente il contrario. Eppure non mi sentivo turbato da particolari demoni interiori. Conoscevo la verità: il mondo -il nostro mondo occidentale- era folle. Non riuscivo a entusiasmarmi pensando alla carriera o alla pensione. Avevo bisogno di una scintilla capace di accendermi, di uno scopo, di un ideale per cui battermi. Attorno a me vedevo una società che aveva smarrito il senso dell' interesse collettivo, della comunità. Dove il futuro non andava oltre i bilanci per l' anno successivo. Una società "innaturale", nel senso letterale del termine: dove i bambini crescevano senza essersi mai arrampicati su un albero e incapaci di riconoscere le costellazioni. Una società materialista che aveva perduto la percezione della gioia di essere vivi, e l' aveva rimpiazzata con armadi modulari dell' IKEA. Era un mondo incasinato, in cui non riuscivo a trovare né uno scopo, né uno spazio. "Mark Mann" -Sul Gringo Trail-
Da dove mi visitate
"Mille anni fa come adesso, cantastorie e menestrelli, rocker e rapper, sono lì a cantare l'altra storia, quella che la gente vuol sentire e il palazzo vuol far sparire. Ma la musica vola. Inafferrabile e imprendibile. Come si fa a metter in gabbia una canzone? Come si può uccidere un ritmo, una ballata, uno stornello?" DarioFO