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mercoledì 22 luglio 2009

# Favela Roçinha

Roçinha, con 300mila abitanti, è la più grande favela di Rio de Janeiro, molto probabilmente, la più grande del Sud America. I giovani sono la maggioranza. I bambini sono tantissimi. La parola favela viene tradotta come baraccopoli, ma non è propriamente vero, la maggior parte delle case sono in mattoni, spesso a più piani, e le baracche in legno e cartone sono poche e ai margini, quasi un eccezione. Ci sono negozi, internet point, mototaxi, a Roçinha addirittura tre banche. Ci sono associazioni di abitanti e ONG. La povertà è diffusa e gli abitanti devono affrontare ogni giorno problemi molto seri, come la mancanza di reti fognarie e idriche, assenza di ospedali, sovrappopolazione e poche scuole. Forse il problema più grande è la presenza di bande del crimine organizzato che controllano il territorio e i traffici di droga, e che in alcune favelas hanno preso il posto dello stato, assente, e quando questo vuole far vedere che c’è, con l’intervento della polizia, fa sempre vittime, spesso innocenti: adolescenti, bambini. Dove non arriva lo stato, e neppure le bande, arrivano le ONG oppure la varie chiese protestanti, con costituzioni di asili per bambini o corsi professionali o di alfabetizzazione per adulti.
L’escursione inizia, prima di entrare nella favela, con la visita di un grande capannone dove, da agosto fino a febbraio/marzo, si fanno le prove del carnevale mentre ora funziona come circolo sportivo ricreativo per i ragazzi e dove si svolgono corsi, ad esempio d’informatica. Per attraversare l’importante strada che esce da un tunnel si passa su una lunga e alta passerella, che arriva ad un’entrata di Roçinha, dove c’è un piccolo mercato, un punto di raccolta di mototaxi e negozi vari, aperti 24 ore. Luiza, la ragazza che mi accompagna, dice che qui non si pagano tasse, e che i proprietari dei negozi hanno tanti soldi e ville con piscina. Dice anche che la maggior parte degli abitanti non paga luce, né telefono, né acqua (che viene distribuita solo tre giorni a settimana, rubata da un condotto che porta l’acqua dal centro al quartiere di São Conrado), e che tutti gli allacciamenti sono abusivi. Ci addentriamo tra gli stretti vicoli, nessun nome per i viottoli che salgono ripidi lungo la collina su cui è stato costruito l'insediamento. Visitiamo l’asilo di una chiesa evangelica, ci dicono che al momento ci sono un ottantina di bambini ma che durante l’estate la struttura è strapiena. Insegnano anche artigianato ai genitori che non hanno lavoro e vogliono imparare. Anche se gestito dalla chiesa, l’edificio comunque è stato costruito dalla “prefeitura”. Le maestre non vogliono che si facciano foto ai bambini. Tra gli stretti viottoli incontriamo ragazzi che lavorano in piccole officine meccaniche o falegnamerie, internet caffè, piccole botteghe, bambini e ragazzi. La strada si apre dove c’è la sede dell’associazione degli abitanti della favela, pur non avendo rilevanti possibilità finanziarie, questa organizzazione offre l’opportunità di migliorare le condizioni di vita agli abitanti. Mi fermo in una bottega a comprare una lattina di “Guaranà Antarctica”. Proseguiamo lungo la strada asfaltata, davanti ad un punto di raccolta della spazzatura, dove gli abitanti accumulano i rifiuti e dove il camion può passare a raccoglierli, Luiza mi raccomanda di non scattare foto, poco lontano ci sono quattro ragazzi armati, con fucili in mano, intorno ad una macchina, e naturalmente non vogliono essere fotografati, potrebbero pensare che sono un giornalista, e la cosa non sarebbe bella per me, i fotografi e i giornalisti non sono ben accetti. Quindi niente foto al punto di raccolta dei rifiuti. Superato velocemente e a testa bassa il gruppo armato, Luiza mi dice che posso tornare a fare foto, ma per star sicuro aspetto qualche altro centinaio di metri. Arrivati in una piccola piazza, dove c’è un altro mercatino, faccio una foto a un casolare azzurro con una croce, che è la sede della chiesa cattolica, un ragazzo mi passa vicino con la moto e mi insulta, guardandomi molto male, io subito chiedo scusa, pensando di averlo abbagliato con il flash, ma come abbasso lo sguardo vedo che a tracolla ha un mitra, non nero come quelli che si vedono nei film americani, ma con la canna cromata, rimango un po’ spaesato, metto via la macchina e lui accelera e va via. Le ultime foto le faccio alla fine, dal “van”, un furgone che funziona come autobus, e che passando per una strada che attraversa la favela mi riporta a Copacabana.

gigipeis

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