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sabato 16 luglio 2022

Il Genepesca

Non era passato nemmeno un mese dalla resa dei nazifascisti e la fine della seconda guerra mondiale in Italia che il peschereccio Genepesca, sulla rotta Tunisi Livorno, all'altezza delle secche di Vada, il 26 maggio 1945, prende in pieno una mina abbandonata che squarcia in due lo scafo e affonda. Poco più di settantasette anni dopo mi trovo a fluttuare nell'acqua a pochi centimetri dalle sue lamiere. Anche stamattina sono partito poco prima delle 5 per arrivare al diving di Cecina tre ore dopo, in gommone siamo quattro clienti, il barcaiolo e la guida subacquea, ovvero padre e figlia, il sito d'immersione si trova a venti minuti di navigazione dalla marina di Cecina, il mare è piatto, soffia una leggerissima brezza, in cielo neanche una nuvola e fa molto caldo, come è giusto che sia in una giornata di metà luglio, la situazione è rilassante e guardare il mare all'orizzonte e sentirne il profumo mi da una sensazione di gioia adrenalinica. Il relitto si trova su un fondale di trentatré metri ed è spezzato in due tronconi, noi esploreremo la parte poppiera, lunga più di cinquanta metri e in assetto di navigazione leggermente sbandato sulla sinistra, mentre la prua si trova a una cinquantina di metri di distanza, poggiato sul mascone di dritta su un fondale di ventinove metri.
La Motonave Genepesca era un peschereccio d'altura ideato e costruito per la surgelazione a bordo del pesce appena pescato in modo da attuare e mantenere la catena del freddo. Era stato costruito in Italia, nei cantieri navali di Riva Trigoso, vicino a Genova e varata nel 1940, era lunga circa settantanove metri, larga dodici, con stazza lorda di circa milleseicentosessanta tonnellate e poteva raggiungere una velocità di tredici nodi. L'equipaggio era composta da 27 civili, tre militari italiani e uno americano e tutti furono tratti in salvo. Il relitto non è pedagnato, ovvero segnalato da una boa, quindi si raggiunge approssimativamente il punto con il gps e lo si cerca con l'ecoscandaglio, una volta sopra si cala l'ancora poi ci prepariamo velocemente ed entriamo in acqua. Fino ad una decina di metri l'acqua è bella calda, il computer segna 24 gradi ma dopo rompiamo un termoclino e il freddo si fa sentire, sul fondo il computer segna 16 gradi, una notevole differenza. Scendiamo seguendo la cime dell'ancora che è posata tra le lamiere dello squarcio provocato dalla mina e ci dirigiamo, seguendo la fiancata di dritta, verso la poppa, nella parte più profonda dove c'è la pala del timone ed al posto dell'elica, che è scomparsa chissà dove, un grosso buco, forse provocato dal tentativo maldestro di recuperarla. Il passaggio tra questi è veramente scenografico e spettacolare, le pareti dello scafo sono piene di madrepore gialle che illuminate con la torcia impreziosiscono tantissimo questo passaggio. Risaliamo verso il ponte di poppa dove alcune strutture crollate fanno vedere i grossi bomboloni che avevano il gas per poter refrigerare le celle frigo. Proseguendo verso prora si incontra ciò che resta del camino, crollato oramai per colpa di una rete che lo ha incagliato, dove si riesce ancora a leggere chiaramente il nome della nave, o meglio, da una parte si distinguono bene le lettere “pesca” e dall'altro un po' meno chiaramente “Gene”.
Si prosegue sempre verso prua, tra bitte, boccaporti, una gru e nuvole di castagnole per arrivare alla spaccatura e tra tante lamiere si notano le serpentine per raffreddare le pareti delle celle. Dopo un altro breve giretto ricominciamo la salita, con molta calma, un “safety stop” a tredici metri e un minuto di deco a tre ma che smaltisco a sei metri dove poi faccio passare anche i tre minuti di sosta di sicurezza. Una volta riemersi saliamo sul gommone, il mare è sempre calmissimo e in cielo splende un sole estivo senza nuvole, sostituiamo le bombole usate con quelle piene e aspettiamo mezz'oretta poi ci dirigiamo verso il secondo punto d'immersione, il relitto di un aereo americano della seconda guerra mondiale, a circa venti minuti di distanza e verso terra.

Immersione sul relitto del Ducky Poo

Arrivati sul sito d'immersione e calata l'ancora, dobbiamo aspettare ancora dieci minuti per garantirci un'adeguata sosta di superficie di almeno un ora tra la prima e la seconda immersione. Fa caldo, il sole picchia forte, cominciamo a prepararci ed io gonfio il mio gav e lo butto in mare, mi allaccio la cintura di zavorra, infilo le pinne, metto la maschera e lo raggiungo in meno di un minuto, indosso il gav in acqua come faccio la maggior parte delle volte e sto un po' più fresco anche se l'acqua in superficie è calda, il computer segna 24 gradi ma sul gommone sono sicuramente più di trenta, mi faccio passare la macchina fotografica, gli altri non sono ancora pronti ma ormai un ora è passata, così chiedo se posso cominciare l'immersione da solo per poter ammirare e fare alcune foto al relitto senza nessuno intorno, la sua sagoma si percepisce già dalla superficie, la profondità del fondale è di diciotto metri, mi danno l'autorizzazione così sgonfio gav e polmoni e vado giù, mi fermo a circa tre metri dal relitto per poterlo ammirare in tutta la sua estensione. A dire il vero non si vede tutto ma dalla sabbia emergono solo l'ala sinistra col suo motore e l'elica con una pala ritta verso la superficie, un pezzo di trave che parte dall'ala, la carlinga, metà del motore di destra e in fondo le punte dei timoni di coda, però si riesce perfettamente a capire e immaginare che sotto la sabbia ci sia tutto l'aereo. Il sito in se è molto piccolo e forse dopo pochi minuti si potrebbe anche decidere di tornare su ma c'è un sacco di vita, dalle castagnole agli scorfanotti, saraghi, donzelle, bavose e tanti altri piccoli pesci ma la star è un grosso grongo che spunta dalla carlinga, esce e si nasconde sotto l'ala, riesce e si torna a imbucare nella carlinga, non ha timore e si lascia fotografare continuamente e sembra si metta in posa come una modella. Il tempo passa in fretta e invece di tornare su dopo pochi minuti riemergo dopo cinquanta giusti giusti e con due minuti di deco accumulati. Oltre l'immersione in se, come la maggior parte delle immersioni nei relitti, è la storia che c'è dietro che li rende ancora più intriganti e interessanti.
Il Ducky Poo, ovvero “Cacca di Papera”, era un P-38 F Lightning F4, ovvero, con un allestimento da ricognizione, nel muso aveva installate le macchine fotografiche al posto delle mitragliatrici. Il P-38 Lightning venne studiato e creato dalla Lockheed nel 1939, entrò in servizio nel 1941, fu l'unico caccia statunitense progettato per essere impiegato per tutta la durata della guerra e fu costruito in circa 10.000 esemplari. Innovativo e molto rivoluzionario, era un aeroplano bitrave, ovvero con le superfici di controllo della coda installate su due travi attaccate alle ali e non sulla fusoliera migliorando l'efficienza aerodinamica dei due motori a V Allison con turbocompressori, molto stabile grazie anche ai due motori che, girando in senso contrario, annullavano la tipica tendenza ad imbardare, tipica dei caccia ad elica monomotore. Per potenza di fuoco, velocità ed affidabilità si dimostrò uno dei più proficui investimenti militari americani. A luglio del 2000 a Cecina arrivarono tre americani, David Toomey e due subacquei esperti che incontrarono Dino e Sara del Diving Centro Sub con una richiesta bizzarra: Trovare il caccia da ricognizione che David Toomey pilotava durante la seconda guerra mondiale e che nel giugno 1944 durante una missione per fotografare in territorio nemico la riva destra dell'Arno partendo da Tarquinia fu colpito da una nuvola di proiettili sparati dall'artiglieria Tedesca che aveva occupato la zona di Cecina per proteggere la ritirata verso Nord. Il pilota fu ferito ma riusci a fare ammarare l'aereo che si appoggiò per qualche secondo sull'acqua e gli permise di saltare fuori dall'abitacolo prima di inabissarsi e così raggiungere la riva a nuoto, dove nei pressi incontrò i partigiani di Guardistallo che lo nascosero ai nazifascisti, fino al primo luglio, quando i carri alleati occuparono la zona e David riusci a tornare al suo battaglione.
Il proprietario del Diving senza veri e propri punti di riferimento disse che era come cercare un ago in un pagliaio e rifiutò i dollari offerti. I tre americani non si scoraggiarono e cercarono e trovarono chi li portò per mare e informò di sei possibili relitti, tutti tracciati con coordinate dalla Marina Italiana per aiutare i pescatori ad evitarli con le reti. Si era tuffato personalmente, di cinque di questi nessuno era un P-38 e l'ultimo non lo avevano trovato, i tre tornarono negli Stati Uniti un po' delusi. Alla fine del 2009 si presentò a Dino e Sara un giornalista che aveva scritto un articolo sulla storia di Toomey e del suo P-38. Ripropose loro di trovare l'aereo con la richiesta che veniva direttamente da David, oramai anziano. Immergendosi nei momenti liberi, perlustrando miglia di fondo marino nella zona presa in considerazione e con qualche “dritta” data dai pescatori locali, finalmente un giorno la mano di Dino toccò qualcosa che usciva dalla sabbia, era la parte superiore della coda poi un po' più avanti un ala con il motore e una pala dell'elica puntata verso il cielo e la carlinga. David Toomey fu informato e con le foto e i video riuscì ad identificare il suo Ducky Poo, quindi si congratulò e ringraziò Dino e Sara, avrebbe voluto recuperarlo e portarlo negli Stati Uniti ma morì poco tempo dopo a quasi novant'anni. Risaliti a bordo del gommone si ritorna al porto mentre Dino racconta qualche altro aneddoto, una volta ormeggiato scarichiamo tutto e lo ricarichiamo sulla vecchia Ape e quindi raggiungiamo il diving a piedi, mi tolgo la muta e smonto e lavo tutto, e una volta pagato, messo i timbri delle due immersioni sul Logbook, riposto tutto nel borsone e salutato Dino e Sara mi dirigo anche questo sabato al campeggio Bocca di Cecina e per fortuna arrivo poco prima delle due e posso entrare in macchina, dalle due alle quattro c'è il periodo di silenzio e le auto non possono circolare all'interno, ma sono le due meno cinque e mi fanno raggiungere la mia piazzola, la 303 come l'altra volta.

sabato 9 luglio 2022

Un relitto nel mare di Cecina

Un altra levataccia per andare ad esplorare un vecchio relitto nel mare della Toscana partendo dalla marina di Cecina, in provincia di Livorno. Sveglia alle 4:30 e alle 4:50 ho già caricato l'attrezzatura in macchina e parto, il viaggio va abbastanza bene e in tre ore sono davanti al diving, l'appuntamento era alle 8:30 ma alle 8:00 ci siamo già quasi tutti, mancano solo due persone che arrivano puntuali alle 8:30. Il diving è poco lontano dal porto, carichiamo le bombole su un ape e noi ci dirigiamo a piedi, scarichiamo le bombole e poi le ricarichiamo sul gommone, dopo circa dieci minuti di navigazione siamo sul sito e si butta l'ancora. Questa giornata di luglio è stupenda, non ci sono nuvole in cielo, il mare è una tavola blu, l'acqua sembra trasparente e mi sento un sorriso da Jocker stampato in faccia che non riesco a scacciar via. La motonave Melania era un piccolo cargo di quasi cinquecento tonnellate di stazza che trasportava merci e liquidi tra Livorno e le isole dell'arcipelago toscano, era lunga cinquantatré metri, larga poco meno di nove e poteva raggiungere una velocità di 9,5 nodi. Era stata costruita nel 1938 in Olanda con un motore diesel fabbricato in Germania e varata col nome MV Marali dalla compagnia Porn M di Londra, nel 1939 fu venduta ad un altra compagnia inglese di Liverpool che la ribattezzo MV Suffolk Coast, con questo nome dopo dodici anni passò ad una compagnia di Newcastle upon Tyne fino al 1963, quando venne venduta ad una società italiana, di Savona, che le cambiò nuovamente nome in MV Melania.
Il 9 febbraio 1970 il vento e le onde di un forte temporale spostarono il carico e la nave cominciò ad imbarcare acqua, lanciato sos, un rimorchiatore corse in soccorso e cercò di trainarla verso il porto di Livorno ma il mare agitato non lo permise allora cerco di portarla verso un basso fondale per farla arenare ma il cavo si spezzò e la nave senza controllo si inabissò quasi completamente ma una parte rimase fuori dall'acqua per diverso tempo creando un potenziale pericolo e disagi alla navigazione, successivamente per evitare questi problemi il relitto fu minato e fatto esplodere per affondarlo definitivamente. La MV Melania ora si trova su un fondale di dodici metri nella zona delle secche di Vada, diviso in tre tronconi, la prua poggiata sul fianco sinistro che arriva fino ai cinque metri e si vede benissimo dalla superficie, il pezzo centrale molto danneggiato ma in assetto di navigazione, che non so il perché mi ricorda lo scheletro di una balena, e la poppa, capovolta e inclinata leggermente sul lato sinistro dove ci si può affacciare e vedere i vari rottami che stanno all'interno, circondata da una selva di posidonia oceanica. L'acqua è limpidissima, e come già detto, il relitto si vede dalla superficie, l'immersione è molto piacevole, semplice e rilassante, la temperatura dell'acqua non scende oltre i 21 gradi e la muta umida è sufficiente per stare caldo. Ho come l'impressione che un pianoforte accompagni il mio respiro con musica classica mentre vago tra le lamiere e i vari pertugi ma sono troppo vicino alla superficie perché sia narcosi d'azoto, è solo suggestione.
Dopo quasi un ora riemergiamo e risaliamo sul gommone, ci dirigiamo al porto, scarichiamo le bombole dalla barca e le carichiamo sull'ape. Al diving smonto e lavo tutto, lascio sgocciolare poi, sistemata l'attrezzatura nel borsone, saluto i simpaticissimi proprietari del diving, padre e figlia, e mi dirigo al campeggio vicinissimo, sulla stessa strada, dove mi fermo per il pomeriggio e la notte. Parcheggiata la macchina e montata la tenda vado al ristorante del campeggio e mi mangio un ottimo primo di pesce e una frittura mista accompagnati con una bella icnusa non filtrata fresca. Sensazione di vacanza estiva, anche se è solo per un giorno, che lascia i problemi della quotidianità dietro le spalle e aggiungo un altro relitto sul mio log book, sul mio diario di bordo.

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