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giovedì 8 dicembre 2022

I relitti dell'Isola degli Internati

Un giorno di festa in mezzo alla settimana, otto dicembre, giovedì, non si va a lavorare, è una bella giornata, non si può stare a casa a guardare la tv, è meglio andare a fare un giro, magari in mezzo alla natura, sarebbe bello andare al mare ma da qui ci vogliono almeno due ore ed è già pomeriggio. Mi viene l'idea di andare sul Po, il grande fiume, a Gualtieri, meno di un ora di macchina, per scoprire se si vedono ancora emergere dalle acque nei pressi dell'isola degli internati, i relitti della seconda guerra mondiale che le televisioni ogni qualvolta c'è siccità, come nell'estate passata e negli ultimi anni sempre più spesso, urlano che sono affiorati dei relitti dalle acque del Po, come fosse una grande scoperta e una novità. Sono anni che io so che ci sono tre relitti e due li ho già visti e fotografati in passato, il terzo non l'ho mai trovato. In realtà non sono proprio dentro le acque del fiume ma in una lanca, un ansa del fiume dove l'acqua non scorre.

Il relitto dell'Ostiglia, il più bello per me, e l'altro, si trovano poco distanti, sulla sponda opposta del parcheggio dove passano dei sentieri per escursionisti e mountain bike e dove c'è una capanna galleggiante che funge da porticciolo per alcune barchette di pescatori, il posto è molto frequentato e i due relitti sono sempre in vista, forse solo quando il fiume è in piena o esonda non si riescono a vedere. L'isola degli internati è un oasi naturalistica, ormai non più un isola ma un lembo di terra della golena di Gualtieri, una specie di penisola tra il fiume e le acque della lanca. Qua vicino in passato c'era un vecchio porto da dove salpava il traghetto a fune che serviva per raggiungere l'altra riva e il paese di Pomponesco e poco più a est un isola piena di alberi e piante. Finita la seconda guerra mondiale, l'isola fu data in gestione ad una cooperativa di ex prigionieri di guerra sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, affinché potessero avere una fonte di sostentamento con lo sfruttamento del legname, un occasione per ricominciare a vivere, da allora le è rimasto questo inquietante nome.

Arrivato al parcheggio, c'è solo un altra macchina, in giro non si vede nessuno, mi affaccio subito sulla riva e i due relitti, nonostante non ci sia la secca di quest'estate, si fanno ammirare, cerco un posto sulla riva con pochi alberi e ne approfitto subito per far volare il drone ed ammirarli dall'alto e da vicino, il paesaggio è fantastico, le vecchie navi fanno da padrone alle mie foto e i miei filmati, mi regalano una grande emozione, come quando mi immergo in mare per andare ad esplorare vecchi relitti.


L'Ostiglia è in assetto di navigazione, con la prua rivolta a nord-ovest, e si è sicuri si chiami così perché quando l'acqua è bassa sulla fiancata sinistra della prua si legge chiarissimo il nome. Per quanto riguarda l'altra bettolina, un po' più a est, sbandata sul lato destro sprofondato sulla riva con la prua semi affondata rivolta verso sud-ovest c'è un po' di mistero, almeno per me. Nelle recenti ricerche, su internet lo chiamano Zibello ma su articoli più datati, neanche tanto a dire il vero, le navi tedesche affondate da un attacco aereo americano nel 1944 o nel 1945, che prima le ha mitragliate poi bombardate, si chiamavano Ostiglia, Dosolo e Revere ed erano due bettoline di circa cinquanta metri e un rimorchiatore, in quanto le bettoline erano senza motore e per muoverle era necessario rimorchiarle.

In alcuni articoli sembra che le bettoline fossero l'Ostiglia (e su questo non ci piove) e Dosolo, ma in altri articoli si legge che il Dosolo era il rimorchiatore. Non ho trovato nessun articolo che faccia riferimento al nome Zibello del relitto spiaggiato. Gli articoli non sono tutti molto credibili, noto anche che sembra siano riaffiorati l'estate appena passata mentre sono anni che si vedono e forse erano nascosti dal fango e riemersi dopo alcuni lavori alla golena, come ricordo di aver letto in passato ma che ora non riesco a trovare le fonti per cercare dettagli migliori. Finite le riprese aeree seguo il sentiero per andare dall'altra parte della lanca e ad un certo punto mi immergo tra gli alberi senza foglie e gli arbusti finché non arrivo proprio di fronte all'Ostiglia, non l'avevo mai vista da così vicino e da questo lato, quando la vegetazione è florida credo sia veramente difficile arrivare fino a qua, faccio volare di nuovo il drone e vengono fuori altre immagini spettacolari.

Continuo a camminare tra le erbacce costeggiando la riva e arrivo anche all'altro relitto, che come già detto è spiaggiato e quindi riesco a salirci su ed arrivare fin dove la nave sprofonda in acqua. Camminarci sopra, toccarlo con le mani, fotografare dei dettagli ed ammirarlo da così vicino accorgermi persino che è spezzato in due, mi da un senso di compiacimento incredibile, un emozione unica. Purtroppo non trovo tracce di un nome, se si può leggere ancora deve essere sott'acqua ma ne dubito fortemente. Sono arrivato davanti ai due relitti seguendo pseudo sentieri tra la boscaglia visti su Google Maps e grazie alla vista satellitare noto una specie di fossa ancora più a est del secondo relitto da dove sembra spunti fuori qualcosa, continuando a camminare tra le sterpaglie e il fango arrivo in un punto dove, verso l'interno, tra il fiume e la lanca, tra gli alberi, come si vede dalla mappa satellitare, c'è un piccolo laghetto da dove escono i rottami di una nave, sono arrivato anche al terzo relitto, si vede poco ma è chiarissimo sia un imbarcazione, che tipo purtroppo non sono in grado di dirlo.


Questo laghetto circolare mi da ancora più l'idea che sia una fossa, scavata proprio per cercare il relitto, forse mi sbaglio ma la mia impressione è proprio questa. Purtroppo il drone ha la batteria scarica e mi devo accontentare di fotografarlo con la reflex, faccio il giro del laghetto per vederlo da ogni lato e cercare di scoprire qualcosa in più ma come già detto si vedono pochi resti uscire dall'acqua. Poco lontano dal laghetto passa il sentiero che porta sulla riva del fiume e poi mi porta al parcheggio, tra gli alberi spogli del paesaggio invernale. Le prime incursioni aeree degli alleati che interessarono i territori del fiume Po, ancora in mano ai tedeschi ed ai fascisti, sono riconducibili al 1944 ed avevano come obbiettivo la distruzione di depositi di carburante, stazioni ed officine, ponti stradali e ferroviari che collegavano le due sponde del grande fiume. Con il passare del tempo anche i traghetti e le altre imbarcazioni divennero obbiettivi degli aerei anglo-americani che partivano dalla Corsica, poi anche dalla Romagna e dalla Toscana.

Per tutto l’inverno 1944 e 1945 le Divisioni anglo-americane mantennero posizioni difensive lungo l’Appennino settentrionale ed in Romagna. Solo a primavera la situazione si sbloccò ed a partire dal 20 aprile 1945 l’avanzata incominciò ad interessare i territori della valle del fiume Po che risultò molto rapida grazie alla progressiva diminuzione di approvvigionamenti alle linee nemiche ed all’appoggio dell’aviazione che poteva godere della completa supremazia nei cieli.
L’avvicinamento al fiume Po fu caratterizzato sempre più da episodi di distruzione e di abbandono di mezzi ed equipaggiamenti da parte dei tedeschi che trovarono il loro apice lungo la riva meridionale del fiume. Inoltre le retroguardie dei reparti tedeschi in ritirata furono decimate da numerose rese e diserzioni. L’arrivo al fiume dei contingenti alleati fu omogeneo e si concentrò nei giorni 22, 23 e 24 aprile 1945. Nonostante le tante ricerche fatte su internet non ho trovato quando sono state affondate le tre imbarcazioni, sembra però che siano state mitragliate e poi bombardate lo stesso giorno, o, più probabilmente, la stessa notte. Da un articolo sembrerebbe siano state costruite nei cantieri navali della Giudecca a Venezia con del metallo donato dall'Austria come debito di guerra ma anche su questo non trovo riscontri attendibili.

martedì 13 settembre 2022

Il relitto di Caprera

Ed eccomi qua, sono sul traghetto che da La Maddalena mi sta portando a Palau, in Sardegna. Sono arrivato sulla piccola isola due giorni fa spinto dalla voglia di rivedere dopo diversi anni, i resti della nave arenata in quella che ha preso il nome di Spiaggia del Relitto sull'isola di Caprera e fargli qualche foto subacquea e aerea con il drone.

Caprera e La Maddalena sono due isole collegate da un ponte costruito nel 1958 lungo seicento metri. Sono partito sabato mattina dal porto di Livorno su un traghetto della Grimaldi lines, la Cruise Sardegna, lunga 225 metri, larga 30, con una stazza lorda di 55000 tonnellate che può ospitare 2850 passeggeri e raggiungere i 28 nodi, poco più dei 50 chilometri orari. Nonostante il viaggio diurno ho preferito prendere una cabina. Dopo circa una decina di ore, sbarco ad Olbia, soffia il maestrale, e dopo esser passato in un centro commerciale fuori dalla città per cenare, mi dirigo verso Porto Taverna e a pochi passi dalla spiaggia parcheggio la macchina, libero il vano portabagagli, abbasso i sedili posteriori, gonfio il materassino e mi preparo per la notte. Una passeggiata sulla sabbia al buio, una birra guardando l'isola di Tavolara davanti a me e poi vado a dormire in macchina col suono del vento e delle onde. 

La domenica mattina parto prima delle sette verso Porto San Paolo e con un diving center contattato il giorno prima, raggiungiamo Tavolara per fare una bella immersione, il viaggio di ritorno verso il porticciolo è molto ballerino, il vento è aumentato e le onde sono altissime. Mi dirigo verso nord, direzione Palau e poi La Maddalena ma mi fermo in mezzo alla campagna, nei pressi di Arzachena per visitare il piccolo sito archeologico di Coddu Vecchiu, una “Tomba dei Giganti” molto affascinante.

Arrivato al porto di Palau metto subito la macchina in fila e poi vado a fare il biglietto, dopo pochi minuti sono sul traghetto, la “Isola Santo Stefano” che in quindici minuti di navigazione attracca a La Maddalena. La nave è lunga 73 metri e larga 15, ha una stazza lorda di 1313 tonnellate, può trasportare 389 passeggeri e 90 automobili e raggiungere 11 nodi, 20 chilometri orari. Mi avvio subito verso il campeggio poco fuori dalla cittadina, sbrigo le formalità, apro la mia vecchia tenda del decathlon, gonfio il materassino, sistemo tavolino e sgabello e poi vado subito a Caprera, alla Spiaggia del Relitto.

Domenica pomeriggio di settembre, la gente è tanta ed anche il vento ma la spiaggia è abbastanza riparata e il mare è calmo, faccio una passeggiata per decidere dove sistemarmi, butto a terra il telo e lo zaino, indosso maschera e boccaglio, macchina fotografica in mano e mi butto in una meravigliosa acqua trasparente dove rimango fino al tramonto, quando la gente comincia piano piano a diminuire e il luogo diventa ancora più affascinante, magico. Dopo la notte passata magnificamente in tenda, la mattina presto del lunedì ritorno alla spiaggia, non c'è nessuno, è molto presto, la luce è radente, faccio volare il drone per fare qualche foto e qualche filmato, la piccola baia è fantastica, il relitto è li che sembra aspettare me e mi regala un senso di pace ed armonia. Finito con le riprese aeree, non c'è ancora nessuno, maschera e boccaglio, macchina fotografica e mi butto in questo meraviglioso acquario intorno al relitto per fare altre foto tra pesci e rottami. Ormai del relitto non rimane molto, i pochi resti di legno e ferro arrugginito che sprofondano in pochi centimetri d'acqua e che affiorano dalla bianca sabbia di Cala Andreani sono tutto ciò che resiste del Motoveliero Trebbo. Partito da Savona direzione Cagliari con un carico di circa 500 tonnellate di carbone.

Il 22 giugno 1955, al largo dell'isola di Caprera, nella sala macchine scoppiò un violento ed improvviso incendio, probabilmente innescato dai gas prodotti dal carbone della stiva, separata dal locale macchine solo da una leggera paratia in legno e lamiera. Venne subito soccorso da una nave incrociata poco prima, il motoveliero Sacro Cuore di Gesù, l'avanzata rapida delle fiamme e l'impossibilità di sedare l'incendio, costrinsero l'equipaggio ad abbandonare la nave e salire sull'imbarcazione soccorritrice. Il Trebbo fu lasciato in mare mentre la Sacro Cuore di Gesù si avvicinò a terra, a Capo Ferro, per poter chiamare i soccorsi e far sbarcare i naufraghi. Il Motoveliero in fiamme fu raggiunto da un rimorchiatore, il Panaria, e da una motobarca pompa della Marina Militare, poco dopo affiancati dal peschereccio SS Trinità partito da Capo Ferro con a bordo il capitano e altri due marinai del Trebbo per aiutare nelle operazioni ma non riuscirono a spegnere l'incendio in mare, né a trainarlo verso un porto sicuro e solo con l'aiuto di un altro rimorchiatore arrivato in seguito, l'Albenga, per evitare l'affondamento e la perdita della nave e del carico, lo trainarono in una piccola insenatura vicino a Punta Rossa, nell'isola di Caprera, facendolo arenare con la prua a terra e allagandolo completamente per estinguere finalmente il fuoco.

Naturalmente non si salvò né la nave né il carico e i resti del Motoveliero Trebbo fanno ormai parte del magnifico panorama di questa cala, almeno finché il tempo ed il mare non lo distruggeranno completamente. Non so quanto tempo passo in acqua ma quando esco la spiaggia è già assediata da diverse persone, mi asciugo, guardo un po' le foto, poi vado al bar a mangiare un panino e bere una birra e dopo mi dirigo a piedi verso le vecchie strutture militari abbandonate di

Punta Rossa, una bella escursione tra edifici, tunnel e capannoni abbandonati fino ad arrivare alla punta più a sud dell'isola tra vento, polvere e paesaggi pazzeschi.

sabato 27 agosto 2022

Il relitto Margaret a La Spezia

Era una notte buia e tempestosa, questo racconto può veramente cominciare così.
Era la notte tra il 2 e il 3 novembre 2005. Il violento vento da sud ovest soffiava a quasi 50 nodi, 90 chilometri orari, una di quelle mareggiate che ormai stanno diventando sempre meno rare nella Liguria di levante. 

 La nave cementiera, ovvero un cargo portarinfuse specializzata nel trasporto di cemento, battente bandiera Georgiana, era partita vuota, dopo aver scaricato, dal porto di Genova con destinazione il porto di Varna in Bulgaria. Trovandosi in difficoltà per le forti raffiche di libeccio, chiese alla capitaneria di porto di La Spezia l'autorizzazione ad entrare nel golfo per ripararsi ed aspettare che le condizioni meteorologiche migliorassero. La capitaneria dà il permesso alla nave di mettersi alla fonda fuori dalla diga foranea di La Spezia ma il capitano della nave non rispetta esattamente le coordinate che gli vengono fornite e forse per questo che la mareggiata strappa gli ancoraggi e le onde la spingono inesorabilmente verso i massi della diga. Troppo vicina, impossibile evitare l'urto, la nave affonda e viene continuamente sbattuta contro la rocce.

L'equipaggio era composto da 13 uomini, due marinai si buttano a mare, o cadono, uno riesce a raggiungere la diga a nuoto, l'altro rimane in mare, gli altri raggiungono le parti della nave ancora emerse e cercano di aggrapparsi a qualsiasi cosa, qualcun altro cade a mare, vengono tutti salvati e recuperati dagli uomini dell'elicottero della guardia costiera, ci sarà solamente un ferito grave, un salvataggio aereo che sembra il clou di un film d'azione, tra le onde, le raffiche di vento, la nave che urta continuamente sugli scogli e i marinai sbattuti da una parte all'altra, il tutto ripreso da telecamere grazie alla vicinanza a un importante città portuale e alle prime luci della mattina. 

Faccio spesso immersioni nel golfo dei poeti, uno dei diving center più vicino a casa, poco meno di due ore, è quello di San Terenzo vicino a Lerici, le loro classiche immersioni sono tutte oltre la città di La Spezia, tra le isole dell'arcipelago Spezzino, Portovenere e Rio Maggiore e quindi passiamo sempre davanti alla diga foranea di La Spezia, ho chiesto spesso di portarmi a fare un immersione al Margaret ma evidentemente non è un sito che reputano interessante per i normali subacquei e nonostante le solite promesse non mi sembra abbiano intenzione di portarmici. Dopo l'ennesima immersione a Grotta Byron, Portovenere, nella bellissima cornice di Cala Arpaia, con la chiesa di San Pietro sul piccolo promontorio a destra, guardando dal mare, e il castello Doria sull'altura rocciosa a sinistra, una volta rientrati a terra e messo via l'attrezzatura, dopo una birra e una focaccia davanti alla spiaggia di San Terenzo, dalla spiaggetta dietro il castello del borgo noleggio una canoa e mi dirigo verso le rocce della diga costeggiando la zona. La giornata è un classico sabato di fine agosto, il sole, caldo, una piccola ondina giusto per dire che il mare non è liscio come l'olio, leggera brezza dal mare, tante barche e bagnanti anche nelle insenature più nascoste. In circa mezz'ora, come mi han detto i ragazzi che mi hanno noleggiato la canoa, raggiungo lo spiazzo dietro la diga dove c'è il fanale rosso e un vecchio rudere e dove porto a terra la canoa.

Provo a raggiungere a piedi il relitto che si trova a circa metà dello sbarramento, verso il mare aperto, ma non esiste un sentiero e i grossi massi che lo creano sono impraticabili, dopo un po' decido di mettere maschera e pinne e raggiungere il Margaret a nuoto, trovo una corrente contraria che mi crea molta fatica ma che poi mi aiuterà al rientro, sembra non arrivare mai, sembra sempre lontanissimo, anche quando sono a pochi metri dal relitto non riesco a scorgere la sua sagoma ma per fortuna emerge la parte alta dell'albero dove erano posizionati gli strumenti per le radio comunicazioni, almeno credo, che virtualmente mi indica il traguardo e finalmente arrivo, è stata dura ma ce l'ho fatta, riesco a vedere il relitto e a fare alcune foto, lo tocco, sono soddisfatto, anche se preferirei avere le bombole e riuscire a vederlo anche dal basso verso l'alto ed esplorare e toccare alcune cose che dalla superficie riesco solo a vedere da lontano, come ad esempio una gru, delle scale, un argano, dei boccaporti dove mi piacerebbe affacciarmi, e magari fluttuare lungo il corridoio sotto il castello di poppa, ma mi accontento ugualmente di esserci arrivato ed aver fatto qualche scatto dalla superficie e farmi un selfie con la parte che emerge sullo sfondo.

Quello che c'è sotto di me è la poppa col suo castello, la prua dovrebbe essere molto più avanti, la nave era lunga ottantaquattro metri ma non so se effettivamente esiste ancora, se è stata distrutta, rimossa o è sprofondata completamente nella sabbia del fondale, non vedo la fiancata che prosegue, probabilmente si è staccata o la visibilità è talmente pessima che mi viene nascosta quindi rinuncio, almeno per questa volta, a fare un altra faticaccia per poi forse non trovare nulla.
  Ritorno alla canoa abbastanza facilmente, nuoto con la corrente a favore, scavalco qualche scoglio, do un occhiata al vecchio rudere, la rimetto in mare e mi godo la bella pagaiata fino a San Terenzo, dove raggiungo la mia macchina per poi avviarmi verso casa.

sabato 16 luglio 2022

Il Genepesca

Non era passato nemmeno un mese dalla resa dei nazifascisti e la fine della seconda guerra mondiale in Italia che il peschereccio Genepesca, sulla rotta Tunisi Livorno, all'altezza delle secche di Vada, il 26 maggio 1945, prende in pieno una mina abbandonata che squarcia in due lo scafo e affonda. Poco più di settantasette anni dopo mi trovo a fluttuare nell'acqua a pochi centimetri dalle sue lamiere. Anche stamattina sono partito poco prima delle 5 per arrivare al diving di Cecina tre ore dopo, in gommone siamo quattro clienti, il barcaiolo e la guida subacquea, ovvero padre e figlia, il sito d'immersione si trova a venti minuti di navigazione dalla marina di Cecina, il mare è piatto, soffia una leggerissima brezza, in cielo neanche una nuvola e fa molto caldo, come è giusto che sia in una giornata di metà luglio, la situazione è rilassante e guardare il mare all'orizzonte e sentirne il profumo mi da una sensazione di gioia adrenalinica. Il relitto si trova su un fondale di trentatré metri ed è spezzato in due tronconi, noi esploreremo la parte poppiera, lunga più di cinquanta metri e in assetto di navigazione leggermente sbandato sulla sinistra, mentre la prua si trova a una cinquantina di metri di distanza, poggiato sul mascone di dritta su un fondale di ventinove metri.
La Motonave Genepesca era un peschereccio d'altura ideato e costruito per la surgelazione a bordo del pesce appena pescato in modo da attuare e mantenere la catena del freddo. Era stato costruito in Italia, nei cantieri navali di Riva Trigoso, vicino a Genova e varata nel 1940, era lunga circa settantanove metri, larga dodici, con stazza lorda di circa milleseicentosessanta tonnellate e poteva raggiungere una velocità di tredici nodi. L'equipaggio era composta da 27 civili, tre militari italiani e uno americano e tutti furono tratti in salvo. Il relitto non è pedagnato, ovvero segnalato da una boa, quindi si raggiunge approssimativamente il punto con il gps e lo si cerca con l'ecoscandaglio, una volta sopra si cala l'ancora poi ci prepariamo velocemente ed entriamo in acqua. Fino ad una decina di metri l'acqua è bella calda, il computer segna 24 gradi ma dopo rompiamo un termoclino e il freddo si fa sentire, sul fondo il computer segna 16 gradi, una notevole differenza. Scendiamo seguendo la cime dell'ancora che è posata tra le lamiere dello squarcio provocato dalla mina e ci dirigiamo, seguendo la fiancata di dritta, verso la poppa, nella parte più profonda dove c'è la pala del timone ed al posto dell'elica, che è scomparsa chissà dove, un grosso buco, forse provocato dal tentativo maldestro di recuperarla. Il passaggio tra questi è veramente scenografico e spettacolare, le pareti dello scafo sono piene di madrepore gialle che illuminate con la torcia impreziosiscono tantissimo questo passaggio. Risaliamo verso il ponte di poppa dove alcune strutture crollate fanno vedere i grossi bomboloni che avevano il gas per poter refrigerare le celle frigo. Proseguendo verso prora si incontra ciò che resta del camino, crollato oramai per colpa di una rete che lo ha incagliato, dove si riesce ancora a leggere chiaramente il nome della nave, o meglio, da una parte si distinguono bene le lettere “pesca” e dall'altro un po' meno chiaramente “Gene”.
Si prosegue sempre verso prua, tra bitte, boccaporti, una gru e nuvole di castagnole per arrivare alla spaccatura e tra tante lamiere si notano le serpentine per raffreddare le pareti delle celle. Dopo un altro breve giretto ricominciamo la salita, con molta calma, un “safety stop” a tredici metri e un minuto di deco a tre ma che smaltisco a sei metri dove poi faccio passare anche i tre minuti di sosta di sicurezza. Una volta riemersi saliamo sul gommone, il mare è sempre calmissimo e in cielo splende un sole estivo senza nuvole, sostituiamo le bombole usate con quelle piene e aspettiamo mezz'oretta poi ci dirigiamo verso il secondo punto d'immersione, il relitto di un aereo americano della seconda guerra mondiale, a circa venti minuti di distanza e verso terra.

Immersione sul relitto del Ducky Poo

Arrivati sul sito d'immersione e calata l'ancora, dobbiamo aspettare ancora dieci minuti per garantirci un'adeguata sosta di superficie di almeno un ora tra la prima e la seconda immersione. Fa caldo, il sole picchia forte, cominciamo a prepararci ed io gonfio il mio gav e lo butto in mare, mi allaccio la cintura di zavorra, infilo le pinne, metto la maschera e lo raggiungo in meno di un minuto, indosso il gav in acqua come faccio la maggior parte delle volte e sto un po' più fresco anche se l'acqua in superficie è calda, il computer segna 24 gradi ma sul gommone sono sicuramente più di trenta, mi faccio passare la macchina fotografica, gli altri non sono ancora pronti ma ormai un ora è passata, così chiedo se posso cominciare l'immersione da solo per poter ammirare e fare alcune foto al relitto senza nessuno intorno, la sua sagoma si percepisce già dalla superficie, la profondità del fondale è di diciotto metri, mi danno l'autorizzazione così sgonfio gav e polmoni e vado giù, mi fermo a circa tre metri dal relitto per poterlo ammirare in tutta la sua estensione. A dire il vero non si vede tutto ma dalla sabbia emergono solo l'ala sinistra col suo motore e l'elica con una pala ritta verso la superficie, un pezzo di trave che parte dall'ala, la carlinga, metà del motore di destra e in fondo le punte dei timoni di coda, però si riesce perfettamente a capire e immaginare che sotto la sabbia ci sia tutto l'aereo. Il sito in se è molto piccolo e forse dopo pochi minuti si potrebbe anche decidere di tornare su ma c'è un sacco di vita, dalle castagnole agli scorfanotti, saraghi, donzelle, bavose e tanti altri piccoli pesci ma la star è un grosso grongo che spunta dalla carlinga, esce e si nasconde sotto l'ala, riesce e si torna a imbucare nella carlinga, non ha timore e si lascia fotografare continuamente e sembra si metta in posa come una modella. Il tempo passa in fretta e invece di tornare su dopo pochi minuti riemergo dopo cinquanta giusti giusti e con due minuti di deco accumulati. Oltre l'immersione in se, come la maggior parte delle immersioni nei relitti, è la storia che c'è dietro che li rende ancora più intriganti e interessanti.
Il Ducky Poo, ovvero “Cacca di Papera”, era un P-38 F Lightning F4, ovvero, con un allestimento da ricognizione, nel muso aveva installate le macchine fotografiche al posto delle mitragliatrici. Il P-38 Lightning venne studiato e creato dalla Lockheed nel 1939, entrò in servizio nel 1941, fu l'unico caccia statunitense progettato per essere impiegato per tutta la durata della guerra e fu costruito in circa 10.000 esemplari. Innovativo e molto rivoluzionario, era un aeroplano bitrave, ovvero con le superfici di controllo della coda installate su due travi attaccate alle ali e non sulla fusoliera migliorando l'efficienza aerodinamica dei due motori a V Allison con turbocompressori, molto stabile grazie anche ai due motori che, girando in senso contrario, annullavano la tipica tendenza ad imbardare, tipica dei caccia ad elica monomotore. Per potenza di fuoco, velocità ed affidabilità si dimostrò uno dei più proficui investimenti militari americani. A luglio del 2000 a Cecina arrivarono tre americani, David Toomey e due subacquei esperti che incontrarono Dino e Sara del Diving Centro Sub con una richiesta bizzarra: Trovare il caccia da ricognizione che David Toomey pilotava durante la seconda guerra mondiale e che nel giugno 1944 durante una missione per fotografare in territorio nemico la riva destra dell'Arno partendo da Tarquinia fu colpito da una nuvola di proiettili sparati dall'artiglieria Tedesca che aveva occupato la zona di Cecina per proteggere la ritirata verso Nord. Il pilota fu ferito ma riusci a fare ammarare l'aereo che si appoggiò per qualche secondo sull'acqua e gli permise di saltare fuori dall'abitacolo prima di inabissarsi e così raggiungere la riva a nuoto, dove nei pressi incontrò i partigiani di Guardistallo che lo nascosero ai nazifascisti, fino al primo luglio, quando i carri alleati occuparono la zona e David riusci a tornare al suo battaglione.
Il proprietario del Diving senza veri e propri punti di riferimento disse che era come cercare un ago in un pagliaio e rifiutò i dollari offerti. I tre americani non si scoraggiarono e cercarono e trovarono chi li portò per mare e informò di sei possibili relitti, tutti tracciati con coordinate dalla Marina Italiana per aiutare i pescatori ad evitarli con le reti. Si era tuffato personalmente, di cinque di questi nessuno era un P-38 e l'ultimo non lo avevano trovato, i tre tornarono negli Stati Uniti un po' delusi. Alla fine del 2009 si presentò a Dino e Sara un giornalista che aveva scritto un articolo sulla storia di Toomey e del suo P-38. Ripropose loro di trovare l'aereo con la richiesta che veniva direttamente da David, oramai anziano. Immergendosi nei momenti liberi, perlustrando miglia di fondo marino nella zona presa in considerazione e con qualche “dritta” data dai pescatori locali, finalmente un giorno la mano di Dino toccò qualcosa che usciva dalla sabbia, era la parte superiore della coda poi un po' più avanti un ala con il motore e una pala dell'elica puntata verso il cielo e la carlinga. David Toomey fu informato e con le foto e i video riuscì ad identificare il suo Ducky Poo, quindi si congratulò e ringraziò Dino e Sara, avrebbe voluto recuperarlo e portarlo negli Stati Uniti ma morì poco tempo dopo a quasi novant'anni. Risaliti a bordo del gommone si ritorna al porto mentre Dino racconta qualche altro aneddoto, una volta ormeggiato scarichiamo tutto e lo ricarichiamo sulla vecchia Ape e quindi raggiungiamo il diving a piedi, mi tolgo la muta e smonto e lavo tutto, e una volta pagato, messo i timbri delle due immersioni sul Logbook, riposto tutto nel borsone e salutato Dino e Sara mi dirigo anche questo sabato al campeggio Bocca di Cecina e per fortuna arrivo poco prima delle due e posso entrare in macchina, dalle due alle quattro c'è il periodo di silenzio e le auto non possono circolare all'interno, ma sono le due meno cinque e mi fanno raggiungere la mia piazzola, la 303 come l'altra volta.

sabato 9 luglio 2022

Un relitto nel mare di Cecina

Un altra levataccia per andare ad esplorare un vecchio relitto nel mare della Toscana partendo dalla marina di Cecina, in provincia di Livorno. Sveglia alle 4:30 e alle 4:50 ho già caricato l'attrezzatura in macchina e parto, il viaggio va abbastanza bene e in tre ore sono davanti al diving, l'appuntamento era alle 8:30 ma alle 8:00 ci siamo già quasi tutti, mancano solo due persone che arrivano puntuali alle 8:30. Il diving è poco lontano dal porto, carichiamo le bombole su un ape e noi ci dirigiamo a piedi, scarichiamo le bombole e poi le ricarichiamo sul gommone, dopo circa dieci minuti di navigazione siamo sul sito e si butta l'ancora. Questa giornata di luglio è stupenda, non ci sono nuvole in cielo, il mare è una tavola blu, l'acqua sembra trasparente e mi sento un sorriso da Jocker stampato in faccia che non riesco a scacciar via. La motonave Melania era un piccolo cargo di quasi cinquecento tonnellate di stazza che trasportava merci e liquidi tra Livorno e le isole dell'arcipelago toscano, era lunga cinquantatré metri, larga poco meno di nove e poteva raggiungere una velocità di 9,5 nodi. Era stata costruita nel 1938 in Olanda con un motore diesel fabbricato in Germania e varata col nome MV Marali dalla compagnia Porn M di Londra, nel 1939 fu venduta ad un altra compagnia inglese di Liverpool che la ribattezzo MV Suffolk Coast, con questo nome dopo dodici anni passò ad una compagnia di Newcastle upon Tyne fino al 1963, quando venne venduta ad una società italiana, di Savona, che le cambiò nuovamente nome in MV Melania.
Il 9 febbraio 1970 il vento e le onde di un forte temporale spostarono il carico e la nave cominciò ad imbarcare acqua, lanciato sos, un rimorchiatore corse in soccorso e cercò di trainarla verso il porto di Livorno ma il mare agitato non lo permise allora cerco di portarla verso un basso fondale per farla arenare ma il cavo si spezzò e la nave senza controllo si inabissò quasi completamente ma una parte rimase fuori dall'acqua per diverso tempo creando un potenziale pericolo e disagi alla navigazione, successivamente per evitare questi problemi il relitto fu minato e fatto esplodere per affondarlo definitivamente. La MV Melania ora si trova su un fondale di dodici metri nella zona delle secche di Vada, diviso in tre tronconi, la prua poggiata sul fianco sinistro che arriva fino ai cinque metri e si vede benissimo dalla superficie, il pezzo centrale molto danneggiato ma in assetto di navigazione, che non so il perché mi ricorda lo scheletro di una balena, e la poppa, capovolta e inclinata leggermente sul lato sinistro dove ci si può affacciare e vedere i vari rottami che stanno all'interno, circondata da una selva di posidonia oceanica. L'acqua è limpidissima, e come già detto, il relitto si vede dalla superficie, l'immersione è molto piacevole, semplice e rilassante, la temperatura dell'acqua non scende oltre i 21 gradi e la muta umida è sufficiente per stare caldo. Ho come l'impressione che un pianoforte accompagni il mio respiro con musica classica mentre vago tra le lamiere e i vari pertugi ma sono troppo vicino alla superficie perché sia narcosi d'azoto, è solo suggestione.
Dopo quasi un ora riemergiamo e risaliamo sul gommone, ci dirigiamo al porto, scarichiamo le bombole dalla barca e le carichiamo sull'ape. Al diving smonto e lavo tutto, lascio sgocciolare poi, sistemata l'attrezzatura nel borsone, saluto i simpaticissimi proprietari del diving, padre e figlia, e mi dirigo al campeggio vicinissimo, sulla stessa strada, dove mi fermo per il pomeriggio e la notte. Parcheggiata la macchina e montata la tenda vado al ristorante del campeggio e mi mangio un ottimo primo di pesce e una frittura mista accompagnati con una bella icnusa non filtrata fresca. Sensazione di vacanza estiva, anche se è solo per un giorno, che lascia i problemi della quotidianità dietro le spalle e aggiungo un altro relitto sul mio log book, sul mio diario di bordo.

venerdì 13 maggio 2022

Museo Atlantico di Lanzarote


Una piccola vacanza di cinque giorni nella bellissima e vulcanica Lanzarote, l'isola più vicina al continente africano dell'arcipelago delle Canarie, in pieno Oceano Atlantico. Un isola incredibilmente affascinante, piena di vulcani, mari di lava solidificata, bellissime spiagge e tanti scorci meravigliosi. Una delle cose che mi hanno spinto a venire fin qui per una breve vacanza, oltre al basso prezzo del biglietto aereo della Ryanair, è l'opportunità di fare un immersione in un luogo molto suggestivo e particolare, ovvero il Museo Atlantico, opera dell'artista Jason DeCaires Taylor, famoso per le sue creazioni subacquee. L'immersione l'ho prenotata da casa, venerdì 13 alle 9:30 devo essere al Diving, quindi lascio l'ostello dove alloggio ad Arrecife, il capoluogo di Lanzarote, verso le 8:00, e con la macchinina presa a noleggio in aeroporto, anche quella prenotata da casa come pure l'ostello, mi dirigo verso Playa Blanca, una cittadina turistica più ad ovest, che raggiungo in circa quaranta minuti. Il diving è molto ben fatto e l'organizzazione eccellente, a pochi gradini da una piccola spiaggetta di ciottoli, vi lavorano anche due ragazzi ed una ragazza italiani, con uno di loro sbrigo tutte le formalità mentre l'altro mi prepara l'attrezzatura e mi fa un ottimo briefing dell'immersione, in solitaria visto che sono l'unico cliente italiano, dove spiega egregiamente il significato artistico del museo in modo che capisca a fondo ciò che l'artista intendeva esprimere con i vari gruppi di statue sommerse, ovvero il “viaggio” dell'essere umano, dalla nascita, alla morte, all'emigrazione, alla sconnessione di molti dalla realtà, a quanto sia piccolo l'uomo rispetto alla natura e che quasi inconsciamente ci stiamo avvicinando ad un punto di non ritorno, al fatto che i potenti che potrebbero far qualcosa per migliorare questo mondo in realtà giocano e peggiorano la situazione.

Dopo che l'istruttore inglese ha finito il briefing anche agli altri clienti, con tutta l'attrezzatura addosso e le pinne in mano, scendiamo nelle piccola spiaggetta dove a pochi metri di distanza ci aspetta il gommone, quindi entriamo in acqua, ci infiliamo le pinne e lo raggiungiamo, salpata l'ancora, in una decina di minuti raggiungiamo il gavitello dove ci ormeggiamo, e uno alla volta, con la capriola all'indietro, entriamo in acqua. In totale siamo otto subacquei più o meno esperti e a parte all'inizio che qualcuno ha qualche problema a scendere, l'immersione scorre tranquilla e entusiasmante tra le statue che hanno i volti, ricavati con degli stampi, delle persone residenti a Lanzarote. L'artista ha vissuto più di due anni sull'isola per studiare e completare il progetto e le persone del posto hanno imparato ad apprezzarlo e considerarlo uno di loro.

Il museo è stato inaugurato nel 2017. L'acqua è blu ed è molto pulita anche se la ragazza italiana mi dice che solitamente la visibilità è di gran lunga migliore e in effetti si nota parecchia sospensione, non so a cosa sia dovuta e non indago, forse mal tempo i giorni precedenti, anche la vita subacquea è interessante, belle cernie, pesci pappagallo, scorfani, ai soliti piccoli pesci che ci sono anche in mediterraneo si aggiungono altri pesci tipici dell'oceano come ad esempio le anguille da giardino (su internet ho trovato che si chiamano così ma non so se è solo la traduzione di garden eel), strani pesci serpentiformi che sbucano dalla sabbia e sembrano delle piante ma se ti avvicini si rintanano velocemente. In circa cinquanta minuti completiamo il percorso e risaliamo in superficie dove ci attende il gommone, ci togliamo le pinne e saliamo a bordo con tutta l'attrezzatura. Prima di arrivare alla spiaggetta davanti al diving ci fermiamo pochi minuti al porto dove il barcaiolo, che era il ragazzo italiano che mi ha aiutato a sbrigare le formalità, scende e prende il comando l'istruttore inglese che ci ha anche fatto da guida subacquea.

Una volta davanti al Diving ci infiliamo le pinne e ci buttiamo in acqua per raggiungere la spiaggia. Sciacquo l'attrezzatura, mi faccio una doccia, metto a posto le mie cose e dopo salutato mi avvio alla macchina per andare a cercare un posto davanti al mare per pranzare.

Il Relitto del Telamon - Lanzarote

Dopo l'emozionante immersione al “Museo Atlantico de Lanzarote” e dopo aver pranzato sul lungomare di Playa Blanca ed essermi steso sull'asciugamano nella bellissima spiaggia, mi metto in macchina e mi inoltro nella zona della Geria, peculiare luogo di vigneti e cantine dove le viti sono piantate singolarmente in dei buchi nella nera sabbia vulcanica e protette dal vento da muretti a secco semicircolari, poi mi trovo sopra il riarso paesaggio delle saline di Janubio, le più estese delle isole Canarie, e sulla nerissima spiaggia che hanno di fronte ma prima di rientrare in ostello ho in testa un'altra tappa che mi gira in testa da casa. 

In una piccola caletta a est di Arrecife emerge dal mare il relitto abbandonato della nave da carico Telamon, chiamato anche “el barco fantasma” La nave fu costruita nel 1953 a Dundee, in Scozia e varata l'anno successivo col nome di Temple Hall, nome che si legge ancora chiaramente sulla poppa, per la Temple Steam Ship Company del porto di Londra. Nel 1969 venne venduta ad una compagnia Greca e ribattezzata Pantelis, dopo altri cambi di proprietà, nel 1977, per un altra compagnia Greca, cambiò nuovamente nome in Telamon. La nave era lunga circa 140 metri, larga circa 18 e con un pescaggio di 9 e una stazza di 8000 tonnellate. Fuori dall'acqua emerge in quasi tutta la sua altezza, merito anche della bassa marea di oggi, la metà nave poppiera con la grande pala del timone totalmente in vista e l'elica assente, durante una mareggiata, non so quando, la nave si è divisa in due e la metà della prua è sprofondata completamente. 

Fino a qualche anno fa i turisti e non solo, salivano a bordo per curiosare e tuffarsi dalle sue strutture, all'interno, una delle stive a cielo aperto si è trasformata in una grande piscina. Adesso il relitto è molto degradato e pericolante quindi le autorità per evitare eventuali incidenti hanno deciso di vietarne l'avvicinamento, in acqua lo hanno circondato con delle reti e delle boe rosse e vi hanno attaccato dei cartelli come quello che c'è anche sulla spiaggia, che avvisano che è proibito avvicinarsi e salire. La nave era partita dalla Costa d'Avorio, uno stato africano nel golfo della Guinea, con un carico di legni pregiati con destinazione la città portuale greca di Salonicco ma mentre attraversava il canale di Bocaina, tra l'isola di Fuerteventura e Lanzarote, si imbatté in una forte tempesta tropicale che, complice la scarsa manutenzione della nave, le fece imbarcare acqua. Il capitano chiede aiuto al porto di Arrecife, Lanzarote, ma le autorità portuali, valutate le pessime condizioni della Telamon, invece di farla entrare in porto, dove potrebbe affondare e bloccare le attività portuali, la fanno rimorchiare con un peschereccio in una zona relativamente riparata ma si incaglia nel basso fondale dove si trova ancora oggi. Era il 31 ottobre 1981 e tutti i membri dell'equipaggio furono tratti in salvo. 

Due giorni dopo il naufragio arriva a Lanzarote il proprietario della nave per verificarne i danni, non so cosa decise e come le cose siano andate ma sta di fatto che la Telamon e i suoi legni pregiati, scaricati e accatastati a terra, non furono mai recuperati, però arrivò una squadra specializzata per contenere eventuali perdite e recuperare il carburante evitando un ennesimo disastro ambientale. Sto li a fotografare e ad ammirare il relitto e godermi il mare seduto sulla sabbia per un oretta poi, dopo il tramonto, me ne ritorno in ostello. Non entro in acqua, ormai la caletta è completamente all'ombra e poi in spiaggia c'è gente e non voglio lasciare le mie cose incustodite ma adesso che scrivo queste poche righe mi dispiace non essermi almeno avvicinato alla rete.

domenica 5 dicembre 2021

Reportage dell'immersione al Nemo's Garden

Sul numero 73 di novembre di "Giroinfoto Magazine" da pagina 126 a pagina 137 c'è il mio racconto e le mie foto dell'immersione che ho fatto a fine giugno al Nemo's Garden a Noli, in Liguria.

domenica 8 agosto 2021

I segreti del lago

Nella rivista Sub Underwater Magazine n° 407 di Agosto/Settembre ci sono le foto e il racconto della mia visita di qualche tempo fa ai mulini sommersi di Capo d'Acqua, in Abruzzo


giovedì 1 luglio 2021

Reportage Vomv Gaz

Il racconto e le foto della visita al relitto della Vomv Gaz sono diventati un articolo sul numero 68 di Giugno di Giroinfoto Magazine








 

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